Queste calde settimane estive possono diventare una prova e una sfida quando si tratta di accogliere con pazienza e centratura i bisogni dei più piccoli. Per me essere a casa con tutti e quattro da sola per tutta la giornata è così impegnativo che lavorare assomiglia quasi ad una vacanza.
Perché è così difficile, così richiedente per noi adulti stare con i bambini, sia sul piano fisico che mentale?
Una storia che avevo letto diverso tempo fa su un giornale era l’esperimento di un atleta professionista che, provocato dall’instancabile ed esuberante figlio di due anni, aveva deciso di trascorrere la giornata imitando e ripetendo tutti i movimenti del piccolo. A conclusione si era ritrovato completamente prostrato, come dopo una giornata di allenamento.
I bambini sanno essere delle vere e proprie “bombe energetiche” dal punto di vista dell’impegno fisico ma anche il coinvolgimento mentale e “spirituale” che viene domandato ai genitori può raggiungere livelli non indifferenti: ci richiedono di uscire costantemente da noi stessi per andare nella direzione dei bisogni di un altro.
Avere un figlio (o più figli) ti costringe a vivere in modo profondamente “incarnato”. I bisogni dei bambini riportano noi adulti al centro dell’essenziale, nel qui ed ora: latte, coccole, cibo per il corpo e per la mente, bisogni fisiologici concreti e puzzolenti, tempo condiviso nello “stare” e basta. Sono bisogni semplici, che vivono di quel momento e di quell’istante, che si nutrono attraverso la presenza, la condivisione, il gioco, il tempo lento.
A questo punto non posso non citare la mia amica Emanuela che quando le ho condiviso questo pensiero lei mi ha risposto che a volte più che una mamma “incarnata” si sente una mamma “incarnita”: talvolta è difficile abbassare lo sguardo per guardare con i loro occhi, essere costantemente richiamati fuori da se stessi; può capitare come genitori di provare una profonda solitudine nelle fatiche educative.
Credo che anche dal punto di vista sociale sia necessario ripartire dal nutrire e sostenere tutto questo, quando il seme è ancora piccolo, al contrario non si potrà godere di maestosi alberi da frutto in futuro.
Noi pensiamo che prenderci cura dei padri e delle madri, delle famiglie che offrono la loro “ciccia”, la loro carne, per crescere un piccolo cucciolo sia un modo nascosto, ma efficace ed insostituibile per costruire un mondo nuovo.
Se non nutriamo una madre finchè nutre, come potrà non sentire il peso delle veglie notturne? Se non sosteniamo le braccia di un padre che cullano, come potrà non sentire la fatica della cura? Se una coppia viene lasciata nella solitudine di crescere un figlio, con quale coraggio aprirà la casa ed il cuore all’arrivo di altri bambini, anche se custodisce questo desiderio?
Una società che non guarda ai bisogni dei bambini e delle famiglie è una società che non può avere un futuro: non c’è un modo morbido per esprimere questo concetto, non ci sono perifrasi addolcenti. Le vite delle famiglie sono fatte di quotidiano e non di paroloni, c’è bisogno di concretezza.
L’amore di un figlio è un amore di carne che chiede la carne: necessita di un grembo che lo custodisca e lo nutra, di un cuore che lo attenda in gestazione, di una madre, un padre, di nonni, di fratelli, di maestri e guide, di tutta quella paternità e maternità allargata del villaggio attorno a lui.
Continua a risuonarmi l’evangelico “se non ritornerete come bambini”, non come frasetta tenera e un po’ naive, ma come monito forte e perentorio: è faticoso uscire dalle nostre strutture adulte, dai nostri tempi, dal nostro bisogno di inscatolare, etichettare, scandire il tempo; proprio per questo credo sia necessario imparare a sintonizzarci sulle frequenze del cuore bambinesco, sulla sapienza dei bambini mentre ce ne prendiamo cura, li sosteniamo, supportiamo nei loro bisogni e nel percorso della loro crescita.
Dite:
è faticoso frequentare i bambini.
Avete ragione.

Poi aggiungete:

perché bisogna mettersi 
al loro livello,
abbassarsi, inclinarsi, curvarsi,

farsi piccoli.
Ora avete torto.

Non è questo che più stanca.
È piuttosto il fatto di essere 

obbligati ad innalzarsi fino all’altezza

dei loro sentimenti.

Tirarsi, allungarsi,
alzarsi sulla punta dei piedi.

Per non ferirli.
Janusz Korczak – “Quando ridiventerò bambino”

 

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